«Cavato dal spagnuolo e dal franzese». Fonti e drammaturgia del «Cerceriere di s

Riferimento: 9788869952333

Editore: Pacini Editore
Autore: Usula Nicola
Collana: I libri dell'associazione Sigismondo Malatesta. Studi di teatro
Pagine: 262 p., Libro in brossura
EAN: 9788869952333
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Descrizione

«Se mi si chiedesse di sintetizzare in due parole la trama del Carceriere di sé medesimo di Lodovico Adimari e Alessandro Melani (Teatro del Cocomero, Firenze, 1681), direi che non racconta altro che l'amore contrastato del principe e della principessa di due regni nemici, in cui si innesta l'espediente dello scambio di persona. Questo equivoco, o "dato di fatto falso", è innescato da un poveretto (di mezzi e di comprendonio) che indossa l'armatura abbandonata dal principe e perciò si ritrova incarcerato, nientemeno che sotto la custodia di quest'ultimo, il quale diventa così carceriere "di sé medesimo". Se a questo dramma per musica si togliessero il tempo dello sviluppo drammatico, l'abilità poetica e teatrale di Adimari, e gli affondi "affettuosi" della musica di Melani, non rimarrebbe che una storia smilza e neppure troppo avvincente, pane per i denti dei detrattori dell'opera del Seicento, che ancora continuano a pensare al melodramma postmonteverdiano come a una "cacciata dall'Eden". Eppure, nonostante la trama semplice e un finale più che scontato, questo dramma per musica racconta molte più storie e più mondi di quanto non paia a prima vista. Si tratta infatti di una delle numerosissime revisioni dell'Alcaide de sí mismo di Calderón de la Barca (1651), mediata dalla versione francese che ne diede Thomas Corneille sotto il titolo Le geôlier de soi-mesme (1655): nel 1681 a Firenze andò dunque in scena il risultato artistico dell'incontro di almeno tre diverse culture teatrali. Gli esiti letterari e teatrali delle varie combinazioni di questi mondi hanno attirato l'attenzione di ispanisti, francesisti e italianisti, nonché teatrologi e musicologi, tutti accomunati dallo stesso filone di ricerca, il cui vero significato mi pare risieda nell'immagine leibniziana della "piega", così come la raccontava Gilles Deleuze. Secondo la lettura del filosofo francese "il Barocco produce pieghe di continuo [...] curva e ricurva le pieghe, le porta all'infinito, piega su piega, piega nella piega". La complessità del mondo delle manipolazioni dei testi teatrali durante il Seicento sembra rispondere proprio a questa dinamica da origami, in cui ogni entità è in realtà la piega di qualcun'altra e a sua volta ne attiva un numero che può dirsi infinito. E così El alcaide di Calderón deriva dalla "piegatura" di elementi letterari e drammatici che lo precedono, e allo stesso tempo genera un altissimo numero di differenti esiti teatrali, a seconda della nazione e dell'autore che si cimenta nella sua revisione. E ciò fino al Carceriere di sé medesimo promosso nel 1681 al Teatro del Cocomero dagli Accademici Infuocati, il quale a sua volta, come vedremo, fu punto di partenza per ulteriori manipolazioni testuali...» (Nicola Usula)